Sindacati e politica: riflessioni sul cambiare lavoro e contratti
Sindacati e politica. Riflessioni sul cambiare lavoro e contratti
L’industria italiana ha mandato segnali positivi.
I dati sull’aumento del fatturato e degli ordinativi non possono che essere accolti con favore, visti anche quelli sulla produzione di qualche giorno fa.
È questo un momento molto importante per la trasformazione dell’industria e dell’economia intera.
Posto che la crescita non è il prodotto delle regole, il sindacato e la contrattazione possono accompagnare questo processo di cambiamento facendo il loro mestiere fino in fondo ovvero accompagnando i processi verso obiettivi utili per il Paese e per i suoi abitanti, in particolare i giovani. Si tratta di riprendere la migliore tradizione di condivisione tra le diverse forze sociali, figlia della Costituzione reale e materiale e che ha permesso all’Italia, in passato, di cogliere i grandi obiettivi di crescita. Basta citare la ricostruzione post-bellica fino all’abbattimento dell’inflazione negli anni ’80 e ’90, all’ingresso in Europa e nell’euro. Ma anche le grandi trasformazioni dell’apparato industriale, senza eccessivi traumi sociali e accompagnando le innovazioni e le ristrutturazioni nei vari comparti produttivi e nei diversi territori, anche se il Mezzogiorno continua a soffrire di occasioni mancate.
La rivoluzione è certamente figlia della tecnologia e del digitale in particolare, ma se si perdono di vista il fattore umano e la centralità della persona si rischia di cambiare soltanto in peggio.
Intanto la richiesta di partecipare alle diverse cabine di regia avendo la consapevolezza che l’impresa è un bene comune e di tutti, non è un affare che riguarda solo gli imprenditori e il management: le persone sono l’alfa e l’omega, sono il soggetto a cui tutto deve rifarsi e i lavoratori sono i veri protagonisti di questa trasformazione. Coinvolti lo sono già, si tratta di innescare processi partecipativi che, partendo dall’area micro organizzativa possano accedere a maggiori responsabilità e riconoscimenti. È un processo culturale che deve manifestarsi più compiutamente e su cui investire: formazione professionale e continua, nuove conoscenze come forma di occupabilità, attitudini alla collaborazione e tanta formazione sindacale per i delegati aziendali. Da qui occorre partire.
La contrattazione aziendale è pratica sempre più diffusa, anche in virtù degli incentivi fiscali ora strutturali sulla premialità variabile; ma conditio sine qua non è la crescita della produttività del lavoro.
Serve un salto di qualità per il quale il sistema sia pronto per questo approccio.
Una parte dei sistemi aziendali è già immersa in questa dimensione, anche se ci si trascina un’idea di produttività solo correlata al fattore lavoro, che rimane certamente la base essenziale: ma oggi i prodotti e i servizi sono misurati dalla loro qualità ed eccellenza, ai tanti fattori di personalizzazione, alla velocità di collocazione e di distribuzione (i magazzini esistono sempre meno), ai pagamenti in tempi accettabili; per fare un esempio, proviamo a riflettere sulle aziende che vendono servizi e prodotti alle aziende ospedaliere, in quanto tempo ricevono il saldo delle loro fatture? Forse è un sistema che deve farsi più … sistema, bisticciando con le parole.
Contrattazione aziendale significa salario aziendale e aspettativa naturale di migliorie retributive comportando il rischio che cresca il conflitto nei luoghi di lavoro.
Il conflitto cresce se lo si vuole innescare, se i sistemi di retribuzione variabile vengono discussi e contrattati, se si trovano soluzioni coerenti e accettabili per tutte le fasce professionali allora si valorizzano le differenze e si attenuano le diseguaglianze.
Poi, vedendo le retribuzioni di alcuni manager, condividiamo le perplessità di tanti chiedendoci dove stia la “ratio”, se la parola giustizia è ancora di casa a questo mondo in netta contrapposizione con gli aziendalisti bocconiani che la giustificano nella libera trattativa di mercato.
I casi più recenti indignano.
Le imprese che investono nel manifatturiero, in particolare, devono tenere conto del rapporto tra industria e territorio, la sostenibilità non è solo economica ma anche ambientale.
È un tema decisivo per il futuro di un Paese come il nostro, per la sua conformazione territoriale, per le problematiche antiche e nuove nel rapporto tra impianti, produzione e ambiente circostante. Nell’ambito dei settori del chimico e del petrolio, delle produzioni ceramiche e del vetro, della gomma e della plastica, della farmaceutica e delle risorse come l’acqua e le energie rinnovabili emerge che solo con il dialogo paziente con i vari portatori d’interesse e con il rispetto di tutti i fattori in gioco nelle diverse circostanze si può procedere verso traguardi di sostenibilità complessivamente intesa. Alla fine non sono solo i lavoratori ad essere esposti a rischi e pericoli, quindi anche le imprese in primis sono interessate a salvaguardare salute, sicurezza e ambiente.
Da qualche anno è emerso il problema della rappresentanza e della rappresentatività delle sigle, assistiamo ancora a casi in cui il lavoro è ostaggio della minoranza.
Al riguardo emerge un convergenza verso un intervento legislativo, che possa far uscire questo problema dal dibattito sindacale per soli addetti ai lavori. In questo senso occorrono certezze per i cittadini in quanto si sta perdendo la dimensione della coesione sociale laddove si proclamano scioperi che gettano nel caos città e aree metropolitane di milioni di persone.
Da parte delle maggiori sigle s’invoca quindi una legge per stabilire alcuni requisiti minimi per fare contrattazione e i contratti nazionali si sono triplicati per il proliferare di associazioni di imprese che rappresentano interessi di soggetti imprese e lavoratori non adeguatamente rappresentate.
Ma la riforma non può cadere ora dall’altro a vantaggio delle solite rappresentanze. E non si tratta e solo di evitare una concorrenza sleale basata solo su retribuzioni sempre più basse, ai limiti della sussistenza su cui noi stessi dissentiamo. Distorsioni di mercato e ingiustizia retributiva portano il Paese indietro, sarebbe una politica che viaggia con l’occhio nello specchietto retrovisore anziché nel parabrezza e così si va a sbattere.
Ma con il nuovo e con le ragioni dell’insoddisfazione ci si deve confrontare.