OVERVIEW SULLE SCOPERTURE DEL WELFARE DI STATO
LO DICIAMO DA ANNI.
In pensione a 71 anni: ecco cosa cambia per i giovani dal 2020
Con il 2020 ecco la previdenza contributiva. I giovani di oggi lavoreranno (almeno) fino a 71 anni di età
Il 2020 è alle porte e il suo arrivo, ormai prossimo, porterà con sé il sistema contributivo per il calcolo della pensione.
Già, perché la previdenza contributiva è realtà e stando a quelli che sono i paletti del “nuovo” sistema previdenziale, i giovani di oggi lavoreranno (almeno) fino al compimento del settantunesimo anno di età.
Ma facciamo un passo indietro e ricordiamo come l’Italia – che prevede i 67 anni come età necessaria per il pensionamento di vecchiaia – si attesta in alto nella graduatoria dei Paesi facenti parte dell’area Ocse. Tanto da portare l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, nell’ultima edizione del rapporto “Pensions at a Glance 2019”, come riportato dal Corriere della Sera, a innalzare l’età prevista dalla legge (e a limitare i prepensionamenti), così da garantire la sostenibilità del sistema pensionistico nostrano.
Si è parlato tanto e si parla tuttora di Quota 100 (e pure di Quota 103), che prevede come si possa andare in pensione qualora la somma degli anni anagrafici e quelli lavorati (con regolare versamento di contributi) faccia come totale – appunto – cento o centotre.
Con un problema non da poco: “Il grosso dei lavoratori con il sistema retributivo o misto, bloccato dalla Fornero, che poteva approfittare di Quota 100 senza rimetterci molto è infatti già uscito; a partire dal prossimo anno, invece, la maggior parte di coloro che potrebbe accedervi avrebbe almeno il 60-65% dell’assegno pensionistico calcolato con il metodo contributivo, rischiando di perdere in media il 10% per l’intera durata della pensione”.
Ecco, poi ci sono anche tutte le problematiche e le rigidità dalla riforma Monti-Fornero che ha fissato a 64 anni l’età per accedere alla pensione a patto di aver maturato un assegno pari a 2,8 il minimo (1.300 euro al mese). Si tratta di una soglia che – considerato il (basso) salario medio attuale – rischia di escludere una grande fetta di giovani lavoratori, ai quali rimarrebbe come unica alternativa il pensionamento di vecchiaia a 71 anni.
Una prospettiva che non può certo far contente le nuove generazioni, che si trovano a fare i conti con un mercato del lavoro – compreso quello di tutti i liberi professionisti a partita Iva – sempre più in contrazione, precario e precarizzante.
Discorso a parte merita il trattamento imbroglio della cosiddetta “gestione separata” cui sono obbligatoriamente soggetti i professionisti non ordinistici.
È prevedibile che giovani non avranno alcuna pensione se non si provvede ad un ragionato reset. 71 anni è ciò che ragionevolmente ci si attende con le dovute eccezioni. Non ci vuole un genio per comprenderne il finale. Emerge ora il disastro dell’allegra gestione di una certa politica clientelare dei lustri passati e di chi ha governato l’istituto.
Quota cento è una solo una dannosa fesseria al pari del reddito di cittadinanza. Prima ancora con la legge 336 è andato in pensione a 40 anni chi aveva fatto 4 o 5 anni di guerra, ex combattenti, ex partigiani e internati, poi gli orfani e vedove di guerra. A questi si aggiungevano gli scatti biennali e la qualifica superiore al momento del collocamento in quiescenza. Poi le baby pensioni e le mancate contribuzioni di certi settori e l’aggregazione nell’INPS degli oneri INPDAP per i quali mai alcun accantonamento è stato fatto!
Di oggi l’attuale esecutivo mette indegnamente le mani con un provvedimento scippo ai danni di chi non può ribellarsi con un drastico taglio alle legittime pensioni di reversibilità e di invalidità.
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