I conti di Benoit Coeuré e quelli dell’Italia
Senza voler essere a tutti i costi apocalittici, un po’ di allarme devono ben suscitarlo le parole del rappresentante francese nella Bce, Benoit Coeuré, che ieri ha rilasciato un’intervista alla Reuters auspicando, in sostanza, un rialzo dei tassi europei.
Spieghiamoci meglio. Le prospettive politiche europee sono cambiate radicalmente in dieci giorni. Da una parte, la vittoria di Macron in Francia ha ricollocato Parigi in una posizione – peraltro non certo inedita nella sua storia – di potenza ancillare alla Germania.
La “trazione berlinese” della costruzione europea, per sbilenca che fosse, ne è uscita rafforzatissima contemporaneamente alla schiacciante vittoria della Merkel alle ultime elezioni regionali.
Subito dopo questi eventi, il vero capo del governo di Berlino, Wolfgang Schauble, ministro delle Finanze, ha dato un’intervista a Repubblica in cui ha sostanzialmente “battezzato” l’asse franco-tedesca come il nuovo baricentro dell’eurozona, e ha prescritto all’Italia di riprendere il cammino delle riforme senza deroghe, considerando che la flessibilità finora ottenuta è già il massimo che si può avere.
L’ignoto Coeurè ha detto che se “il rimbalzo dell’inflazione si mostrerà duraturo, tenere il costo del denaro troppo a lungo così basso diventerebbe troppo oneroso per le banche“.
Già: perché con i tassi bassi le banche guadagnano troppo poco, quelle tedesche meno ancora delle altre. Un messaggio all’indirizzo del presidente della Bce Mario Draghi, un messaggio del tutto coerente con la linea tedesca che è avversaria, ormai dichiaratamente, al proseguimento del Quantitative easing con cui Draghi ha sostenuto la crescita europea negli ultimi anni irrorando il mercato di liquidità aggiuntiva.
Su questa sua linea Draghi non ha più la Francia al fianco. Tassi bassi e immissione di liquidità sul mercato per aiutare la ripresa erano le due scelte di fondo che Parigi benediceva.
Ora invece il banchiere centrale francese si smarca e aderisce alla line Schauble: basta con il Quantitative easing e tassi più alti.
Ma un solo punto di tasso di riferimento in più vale, per l’Italia – gravata da 2270 miliardi di debito pubblico – almeno 22 miliardi all’anno di maggior costo di “servizio del debito”, per poter ancora collocare sul mercato i nostri titoli.
Due conti da carta del formaggio: partendo da un deficit finale del 2% del Pil, quindi circa 32 miliardi, e tenendo conto che in teoria oggi il “Fiscal compact” ci prescriverebbe al contrario di ridurre il debito del 3% all’anno, quindi di 48 miliardi, ne consegue che per essere “virtuosi” dovremmo generale un avanzo primario dei conti pubblici (cioè quel che resta delle entrate una volta pagate tutte le spese) mostruoso: 32 miliardi in più per azzerare lo sbilancio spese/entrate, 48 miliardi in più per abbattere il debito, 22 in più per assorbire il rialzo dei tassi. Un centinaio di miliardi e passa la paura. Impensabile.
Questo conticino è volutamente surreale.
E se è vero che la politica va interpretata dai segnali deboli, questi lo sono, senza dubbio.
Il tasso d’inflazione nell’eurozona ad aprile è stato dell’1,9%, vicino quindi al 2% che per statuto la Bce ha come obiettivo, ma non certo superiore: quindi alzare i tassi in chiave anti-inflattiva non ha senso, né ha senso interrompere il programma di acquisto di bond che sta sostenendo con 2300 miliardi di liquidità il sistema finanziario Ue.
Eppure il francese ha auspicato esattamente questa scelta: come da tempo fa la Germania. Se questa linea prosegue, l’Italia è fritta.