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GLI AUMENTI DELLE RETRIBUZIONI SONO TABÙ

Nell’era del digitale e del data journalism – espressione cara a qualche sedicente e convinto guru del giornalismo – non c’è giorno in cui non arrivino dati all’attenzione dell’opinione pubblica, in particolare quelli attorno a cui gravitano le emergenze e le priorità del nostro tempo, vedi ad esempio l’economia e il lavoro.

E meno male che, ora, ministero del Lavoro, Istat e Inps sono riusciti a condividere qualche rilevazione/comunicazione perché, fino a ieri, hanno fatto il possibile per disorientare persino gli esperti.

Tanto che vien da chiedersi: ma che utilità hanno le rilevazioni periodiche vista la complessità e la confusione che ne deriva? Non mancano i tentativi di fare chiarezza, ma – basta farci caso – non trovano lo spazio che meritano.

La dinamica che prevale è quella del dato che circola e non del suo significato.

Ma, ahimè, questo è il data journalism, ovvero il giornalismo d’avanguardia che a differenza della doxa (direbbero i filosofi pre-socratici), dell’opinione, poggia la sua retorica sui numeri. Peccato però che o i dati li si legge e li si comprende in uno scenario di sistema, o i dati sono solo, appunto, numeri.

A tal proposito, è di questi giorni una rilevazione Istat interessante che, sommersa dalla polemica dei voucher e dell’articolo 18, ha trovato poco spazio e che, tuttavia, meriterebbe di avere più attenzione dagli esperti e dal dibattito: gli aumenti delle retribuzioni non sono mai stati così bassi dal 1982; in particolare, nel mese di novembre l’indice delle retribuzioni contrattuali orarie è aumentato dello 0,1% rispetto al mese precedente e dello 0,5% anno su anno.

A parte il fatto che l’annata di cui paliamo è caratterizzata da una dinamica inflativa anomala – il fantasma della deflazione si è più volte fatto vedere -, va ricordato che il 68% dei lavoratori dipendenti del nostro Paese è in attesa del rinnovo del proprio contratto di categoria; e fino a quando non c’è rinnovo, non ci può essere crescita salariale. Andrebbe tuttavia condiviso un ragionamento di fondo sul discorso retribuzioni su cui pare orientato il sistema delle relazioni industriali, anche alla luce del recente rinnovo del contratto metalmeccanico.

Usciamo da anni molto difficili per l’economia, anni in cui si sono perse molte industrie, imprese e posti di lavoro. Va ricostruito il tessuto produttivo e, ciò che ne resta, indubbiamente va rafforzato.

Difficile costruire e ricostruire sulla base di una crescita dei salari indipendente dall’andamento generale dell’economia.

“La ricchezza si distribuisce laddove prodotta”, questa la filosofia del nuovo ciclo produttivo, su cui stanno convergendo le passaggio decisivo: il salario non è più una variabile indipendente. Siamo, anche noi, arrivati a capirlo.

Resta, quello dei salari, un ambito su cui tutti sono chiamati a fare la loro parte: impresa e lavoro, ma anche lo Stato.

Il cuneo fiscale resta tra i più alti d’Europa, in relazione però a retribuzioni ben più basse.

Le recenti detassazioni di premi di produttività e welfare aziendale sono buona cosa, ma fino a quando il legislatore non interverrà strutturalmente a livello fiscale, continueremo a eludere uno dei nodi cruciali della nostra economia.

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