DECLINO E RINASCITA

Condannata a passare da penisola geografica ad isola politica, l’Italia sta subendo da decenni una progressiva decadenza economica e culturale.

E c’è ben poco da gloriarsi se possiamo ancora vantare il patrimonio artistico più imponente al mondo se in realtà i musei e le opere d’arte non vengono affatto valorizzati, generando irrisori introiti per le casse dello Stato e nessun ritorno in termini occupazionali.

E poco importa se i giovani – quelli sbeffeggiati recentemente dal Ministro del Lavoro Poletti – fuggono all’estero in cerca di un’occupazione, ché tanto in Italia non si trovano posti disponibili e quei pochi che ci sono vengono sottopagati e sviliti da una crescente precarietà.

Un’Italia dove il “ceto medio” – a lungo spina dorsale del Paese – sta letteralmente scomparendo, costretto dall’aggravarsi della situazione economica generale a scivolare al livello di mera sussistenza.

Di fatto un’Italia, insomma, condannata ad un futuro di povertà quella che leggiamo quotidianamente da qualche decennio, racconta l’imprenditoria nazionale, i suoi successi in Italia ed all’estero ma anche gli evidenti limiti. Quelli legati al fisco, alla burocrazia, alle pressioni sindacali, fino all’incubo di Equitalia.

Nel nostro paese – dicono gli imprenditori – non si può fare impresa e molto spesso le aziende chiudono o vengono cedute a società estere. Ma perché – ci si chiede – quando le stesse aziende vengono acquisite da multinazionali straniere, il nuovo management riesce a fare comunque business pur continuando a produrre in Italia? Il problema risiede nella mediocrità dell’attuale classe dirigente ed imprenditoriale che manca di adeguata formazione e di reale spirito collaborativo. Quel “fare rete” e “fare sistema” di cui tanto si parla nei convegni ma che viene messo in pratica poco e male.

A partire dalla necessità di comprendere che internazionalizzare non significa delocalizzare le produzioni, né cedere la mano ad aziende straniere ma implica lo forzo di ripensare la propria impresa con nuove tecnologie, nuovi prodotti e nuovi processi in grado di reggere la concorrenza globale.

Puntando sui comparti che possano garantire redditività, sviluppo, occupazione. “Avio ed aerospazio, macchine di precisione, alimenti e vini di qualità, design, tessile e abbigliamento di altissimo livello e di produzione esclusivamente nazionale, mobilità intelligente, costruzioni navali, impiantistica”.

Quello mostrato potrebbe sembrare a tratti un’autopsia di un Paese deceduto sotto i colpi della globalizzazione ed affetto dalla decadenza della sua classe imprenditoriale e politica.

Ma non tutto è perduto. In “Italia allo sbando” infatti, i capitoli finali sono dedicati a tracciare un percorso per uscire dall’anemica e ansimante condizione che affligge il territorio nazionale. Una lenta agonia che può essere interrotta, rilanciando le eccellenze del nostro Paese. Esempi virtuosi da seguire ce ne sono e sono significativi.

Dal distretto di Torino che – anche senza la Fiat americana di Marchionne – realizza produzioni di altissima qualità alle start up e agli incubatori di aziende sviluppati in collaborazione con le Università ed i centri ricerca, fino alle vincenti politiche di distribuzione e commercializzazione dei prodotti agricoli promosse dal Trentino Alto Adige. Ciò presuppone però di indirizzare investimenti nel settore della ricerca e dell’istruzione che languono da troppi anni.

Non solo. C’è bisogno di un rinnovato clima aziendale con maggiori garanzie e tutele per i lavoratori, in cui vengano davvero valorizzare le professionalità e le competenze dei dipendenti in una logica di reale meritocrazia, dove il rapporto di lavoro sia caratterizzato da un autentico spirito di collaborazione tra imprenditore e lavoratore.

Ma sono davvero molte le proposte praticabili per uscire dalla crisi proposte dall’autore in questo agile volume.

Perché – nonostante le critiche – noi in Assimpresa ancora si crede che l’Italia possa avere un futuro.

 

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