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Al termine di una giornata borsistica che potremmo definire “positiva” per l’Italia e per l’euro, il Presidente della Commissione europea, Juncker, ha rilasciato questa dichiarazione: “A volte sospetto che l’amministrazione americana voglia dividere l’Europa tra diversi stati membri per quanto riguarda il commercio”.
Cominciamo da ieri. Lo spread Btp/Bund è sceso, il rendimento del decennale italiano anche e l’euro si è rafforzato mentre la Reuters dava conto di un rumour secondo cui la Bce sta considerando di comprare più bond a lunga scadenza l’anno prossimo; una mossa da molti interpretata in senso “accomodante” e tesa a evitare la “volatilità” sul mercato delle obbligazioni europee.
Aggiungiamo che, almeno come impressione, l’Europa sembra aver evitato rotture traumatiche sulla vicenda migranti. In un mondo normale la notizia di una Bce più espansiva avrebbe dovuto sortire l’effetto opposto sull’euro invece di quello visto ieri.
Ma è chiaro che non è questo il modo in cui i “mercati” oggi guardano l’Europa.
Diversi indizi, oltre tutto concordanti, suggeriscono che lo scenario in cui si guarda l’Europa sui mercati non sia ordinario. È come se l’opzione, indicibile e impossibile in teoria, di una sua rottura sia diventato lo sfondo con cui interpretare tutte le vicende che la riguardano.
Ogni notizia che rimanda il problema o ne fa diminuire le probabilità diventa positiva a prescindere dai significati “normali”. L’Europa è stretta tra populismi interni e movimenti anti-euro nati anche e soprattutto per i difetti dell’attuale struttura europea; l’Europa è oggetto di una guerra commerciale che colpisce al cuore il suo modello economico e infine è divisa per le conseguenze dei flussi migratori che mettono alcuni Paesi molto più sotto pressione di altri e da cui alcuni Paesi riescono a schermarsi e altri no.
In questo scenario la questione è se un’Europa resa fragile da alcuni difetti di costruzione, su cui non discute più nessuno, riesca a resistere “come insieme” di fronte a possibili pressioni esterne eccezionali.
Come dire: una guerra commerciale, una fase di volatilità dei mercati come conseguenze di alcuni squilibri finanziari, un’ulteriore divergenza della performance economica dei Paesi membri o per esempio i flussi migratori.
L’Europa in questa fase non sembra attrezzata per resistere a uno shock come si è imparato nel 2011. Soprattutto si fatica a percepire una forte volontà di rimanere insieme; è come se l’interesse a proseguire sia più dovuto alla paura dell’ignoto che a una reale volontà di continuare con il progetto.
L’interesse americano a spezzare l’Europa di cui parla Juncker è concordante con le dichiarazioni di Trump durante la visita di Macron a Washington di fine aprile “l’accordo con la Francia è complicato a causa dell’Unione europea; preferirei avere a che fare solamente con la Francia”.
A fine maggio Soros parlava di una “crisi esistenziale” dell’Unione europea.
Putin a inizio giugno si esprimeva così “Circolano rumor secondo cui Soros avrebbe intenzione di rendere l’euro altamente volatile. Gli esperti ne stanno già discutendo.
Chiedete al dipartimento di Stato (americano) perché lo stia facendo”. Facciamo che Putin non sia affidabile per definizione, Soros quasi e Trump pure; se si mette anche Juncker come minimo dovremmo parlare di un’allucinazione collettiva.
Rimangono però le fragilità dell’Unione europea e le attuali fonti, economiche, sociali e geo-politiche, di volatilità.
Prima ancora che una questione “tecnica”, il fondo Esm o le regole bancarie, piuttosto che il 3% di deficit su Pil, sembra in difficoltà un’Europa spesso concepita come luogo usato per emergere a danno degli altri, in cui non deve mai cambiare niente per non modificare alcuni rapporti di forza consolidati e senza un’idea di sviluppo comune o di solidarietà tra Paesi.
Ma così è solo un conto alla rovescia accelerato dalle pressioni esterne e dal malcontento interno per una struttura che non funziona e non produce un benessere diffuso.
Se si vuole salvare il progetto