A che età andranno in pensione i trentenni di oggi? Ecco come l’Italia brucia il futuro
Contribuzione insufficiente per precarietà e ritardo occupazionale.
Taglio cuneo e politiche attive per rimediare
Intanto cresce oltre le previsioni la spesa pensionistica per tutela i lavoratori anziani.
Per i trentenni si allontana sempre più l’età della pensione e crescono i rischi, per chi ha avuto una carriera incerta e spezzettata, che si allontani il momento in cui percepirà un assegna adeguato.
La differenza tra padri e figli può arrivare fino a 6 anni, visto che i primi oggi vanno in pensione a 66 anno e sette mesi, mentre i loro figli nati nel 1980 neu casi peggiori rischiano di dover aspettare fino a 73 anni.
Taglio del cuneo previdenziale e politiche attive per il lavoro potrebbero attenuare i rischi per i giovani.
Ma intanto la spesa pensionistica cresce più del previsto, come avverte il Fondo Monetario, ostacolando il riequilibrio del sistema di welfare, troppo sbilanciato sulla tutela dei lavoratori anziani e poco a favore di chi il lavoro non ce l’ha o ne ha uno precario.
La spesa pensionistica corre oltre le previsioni. Mentre per i trentenni si allontana sempre di più l’età di pensionamento e restano alti i rischi, per chi ha avuto una carriera incerta, di dover allungare ulteriormente il momento del ritiro con un assegno Inps inadeguato.
Il distacco di cui sopra non cambia se si confrontano le età di pensionamento medie attuali (61-62 anni) con quelle di vecchiaia dei millenials che è di 69 anni e 5 mesi.
Servirebbero paracaduti di sicurezza: un taglio al cuneo per rendere più stabili le carriere lavorative fin dall’inizio è la misura allo studio, così come il rafforzamento delle politiche attive del lavoro.
Ma la corsa della spese continua a sottrarre risorse e mantenere lo squilibrio strutturale del nostro welfare tutto a favore della previdenza e poco delle politiche attive.
Con un mercato del lavoro che viaggia su tassi di disoccupazione al 17,40% tra i 26 e i 34 anni contro il 6,20% degli over 50 (fonte Istat giugno 2017.
L’ultimo campanello di allarme l’ha suonato di recente il Fondo Monetario Internazionale. Il report presentato sul nostro paese invita alla massima prudenza nelle stime di medio-lungo periodo che comprendono la famosa “gobba” che si fermerà nel prossimo ventennio col ritiro dei baby boomers dal mercato del lavoro, una crescita della spesa fino al 16,30% del PIL nel 2040 e un successivo calo, appena sotto il 14,00% quando tra il 2050 e il 2060, saranno scomparse le ultime coorti con totale o parziale calcolo retributivo.
Ma potrebbe andare anche molto peggio dice il Fondo Monetario, e anziché una contrazione potremmo vedere un ulteriore aumento della spesa di 2, 25 punti.
IL tutto al netto del calo del PIL (0,7 nelle medie future), della contrazione del lavoro indotto dai flussi migratori in forte calo da 360.000 a 160.000.
Se sulle proiezioni future c’è molto da dire, guardando al passato le certezze sono amare. A 22 anni dalla riforma Dini la spesa cumulate è cresciuta di 89,3 miliardi e l’età media di pensionamento non ha mai superato i 62 anni.
Numeri da brivido se letti da chi appartiene alla generazione dei millenials.
Loro non mai stati al centro di seri interventi e progetti legislativi.
Anche la Ragioneria vede al rialzo le stime future troppo leggere in caso di carriere contributive frammentarie o troppo lontane nel tempo.
Il secondo pilastro.
In Italia gli iscritto a forme di previdenza complementare sono meno di 7,2 milioni anche se le posizioni aperte sono oltre 8 milioni, essendo che alcuni abbiano attivato più posizioni.
Secondo la Covip il bacino potenziale del settore ammonta a 25,700 milioni di soggetti.
Ne consegue che gli aderenti effettivi alla previdenza complementare sono il 27,6% della platea di riferimento.
Il dato è ancora meno positivo tenuto conto che poco meno di un giovane su 5 (età compresa tra i 20 e i 34 anni) si è attivato per costruirsi una forma di previdenza integrativa a fronte del 27% della fascia 35-44 anni e del 34% della fascia 45-64 anni.
Il tutto nella riguardo al fatto che in Italia si è considerati giovani fino a 40 anni.
Considerazione più opportuna rapportare le medie alla popolazione occupata posto che la stabilizzazione sul lavoro giunge tardi. Quindi, come si concilia una spesa di integrazione previdenziale senza prospettiva di lavoro o con una retribuzione inadeguata.
Con una quota di occupati sulla popolazione compresa tra i 25 e i 34 anni del 60% anche tra chi non è un bamboccione, (inferiore di venti punti alla Germania) possiamo concludere che senza iniziative solutorie è un paese che brucia il proprio futuro.