Crisi ed evoluzione della rappresentanza sindacale
La rappresentanza dell’industria – parola che dentro la grande trasformazione sempre più sintetizza la corrispondenza che esiste tra impresa e lavoro organizzato – è un mondo complesso, in particolare per la sua eterogeneità espressa da settori, storie e culture diverse. Quando si parla di crisi della rappresentanza – ci riferiamo in questo caso a quella di impresa e lavoro, non politica – si dovrebbero fare tuttavia dei distinguo: il cambiamento che stiamo attraversando coinvolge tutte le imprese e tutti i lavoratori, è chiaro però che ci sono settori che stanno meglio, per esempio quelli che nonostante la crisi hanno conosciuto una buona performance (chimici e alimentaristi), altri che nella difficoltà della congiuntura hanno trovato risposte rilevanti considerato il loro status (metalmeccanici).
È naturale che il livello confederale sia quello che più fatica a rispondere, perché è quello meno collegato in modo immediato al terreno del lavoro e al quale, cosa non di poco conto, spetta il compito della sintesi, di trovare cioè soluzioni utili per tutti; sintesi che manca dal 2013, anno in cui è scaduto l’ultimo accordo sul modello contrattuale, firmato nel 2009 da Confindustria e dalle sole Cisl e Uil.
L’accordo del 2009 andava a rafforzare il compito della contrattazione di secondo livello in funzione del plusvalore prodotto nei luoghi di lavoro: in un momento molto complicato per l’economia, Confindustria si decise a puntare in modo forte sul secondo livello, cosa significativa perché la contrattazione aziendale era in parte vista anche dagli Industriali – e non solo dalla Cgil – come qualcosa che andava a indebolire il primo livello di contrattazione. La Cgil non aderì a quell’accordo, ma, a parte la Fiom, tutte le sue categorie firmarono i rinnovi di settore ispirati da quel modello contrattuale.
Piccolo particolare: nei contratti non veniva richiamato esplicitamente l’ipca – l’indice dei prezzi al consumo – che regolava le oscillazioni retributive in funzione della dinamica inflattiva. Con gli accordi poi del 2011 e del 2013 che sono seguiti al caso Fiat, tuttavia, la Cgil si allineava a quelle istanze che ispirano la filosofia così tanto cara non solo a Cisl e Uil ma anche a Federmeccanica – vedasi Manifesto per le relazioni industriali – e a Vincenzo Boccia: “la ricchezza si distribuisce quando e laddove prodotta”.
Venendo ai giorni nostri, ora che anche Landini e la Fiom – che così tanto hanno resistito allo spostamento del baricentro contrattuale (questa in sintesi l’origine del caso Fiat) – firmano un contratto che afferma la funzione e il valore del secondo livello, parrebbe che ci siano le condizioni per tirare una riga a livello confederale e arrivare a un modello contrattuale che una volta per tutte in modo unitario sottoscriva i principi del salario aziendale e del rapporto tra i due livelli contrattuali.
Le resistenze che invece si avvertono fanno pensare che la difficoltà sia sempre quella di fare chiarezza sulle cose, perché qualcuno tira da una parte e qualcuno dall’altra e quindi meglio non scontentare nessuno; ma così facendo, si rinuncia alla propria missione. Nessuno può dire con certezza che le confederazioni vi abbiano rinunciato, ma il loro stallo è così prolungato da sembrare permanente, nonostante la ripresa del confronto proprio su questi punti.
Qualcuno dirà, anche per questo, che le confederazioni non hanno più senso, perché chi contratta – le federazioni di categoria – ha dimostrato di poter fare da solo. Forse sul piano contrattuale è scattata una nuova epoca, ma alle confederazioni spetta comunque un grande compito: quello di influire sul legislatore per la ridefinizione dei criteri di rappresentatività e rappresentanza.
Il Testo Unico è in larga parte inattuato, ma soprattutto resta un’intesa tra le Parti.
Serve invece, risolvere il problema sorto dopo il caso Fiat della proliferazione progressiva di contratti e rappresentanze fantasma.
Solo una legge sulla rappresentanza sindacale può riportare la contrattazione nei giusti confini.
E’ stato ribadito la scorsa settimana al Congresso della Cisl. È questo il compito principale che hanno le Confederazioni per il Lavoro 4.0, ed è un grande compito.
Noi diciamo che la legge sulla rappresentanza non può essere calata dall’alto ora che nuove organizzazioni emergono lasciando sul bagnasciuga inservibili relitti ideologici e indecenti convenienze ripartite ritenute intoccabili.