Alternanza scuola-lavoro: bene, ma è solo l’inizio
Succedeva ai miei tempi, alla fine delle medie, che erano serie, veniva data la famosa indicazione orientativa a parte degli insegnanti: i più bravi al liceo o dove vogliono, i medi agli istituti tecnici, i problematici sul piano cognitivo e/o comportamentale alle scuole professionali di stato o regionali.
Ora succede che si anche per chi è collocato nella terza categoria non si è condannati per sempre: la strada dell’università non è comunque preclusa.
L’università, il paradiso terrestre, non è negato a nessuno. Penosa consolazione per il realismo dei più.
Ma l’università ormai, anziché un paradiso, sta diventando una funerea prospettiva. E l’inserimento rapido nel mondo del lavoro non è più la minaccia che i nostri genitori facevano ai figli svogliati o disubbidienti.
L’ingresso nel mondo produttivo è la meta agognata dai più, mentre la visione del precariato docente o dei venticinquenni-trentenni disoccupati intristisce e preoccupa tutte le famiglie e il paese.
Dunque è ampiamente maturata una situazione nuova, dove il lavoro precoce ed un breve corso di studi non saranno più umilianti e dove un lungo corso di studi non sarà più onorante e remunerativo.
L’onore, l’apprezzamento sociale che sembrava scomparso, torna a posizionarsi fuori dal titolo di studi, torna nel rapporto tra l’individuo e le persone che lo circondano, in mezzo alle quali esercita le sue capacità lavorative e relazionali, preponderanti o almeno equivalenti e non accessorie rispetto alle competenze scolastiche.
La realtà comunque dello sviluppo ineguale (e della partenza ineguale) degli esseri umani rimane. La realtà del 50 per cento che non ama e non è adatta all’apprendimento astratto e quindi a lunghi o lunghissimi iter di studio rimane. Ma per fortuna l’ambiente lavorativo, a differenza di quello scolastico, è molto ricco di situazioni multiformi e flessibili, o rigidamente stabilite, ma anche fortemente controllate e guidate. Lo è perché dal lavoro è nata, nei millenni, la civiltà e si è sviluppata l’umanità reale giunta fino a noi.
Quindi negli ambienti lavorativi i vari tipi umani nelle loro varie fasi di sviluppo possono posizionarsi accettabilmente come è scritto ormai nel dna di ciascuno.
In Europa la categoria dei giovani che “imparano facendo” è valutata intorno al 50 per cento. Sono quelli che noi consideriamo “problematici” nella visione ristretta del nostro scolasticismo, contraddetto dalle vicende storiche del nostro paese.
Nella tumultuosa rinascita industriale del dopoguerra, la maggioranza degli industriali del nord Italia aveva sì e no la terza media come titolo di studio.
Questo dato vale non solo per l’industria piccola o media, ma anche, con esempi clamorosi (vedasi il caso di Enzo Ferrari), nella grande.
Un sistema scolastico flessibile dovrebbe prevedere forti interazioni tra la scuola superiore e il lavoro.
Ben venga e si accresca quindi l’apertura delle 200 e delle 400 ore di alternanza scuola-lavoro negli istituti e nei licei e l’apprendistato rivitalizzato.
Ben venga anche il coraggio nostro di inventare, sperimentare, applicare forme e dinamiche nuove di organizzazione dei piani di studio, dell’apprendimento e del rapporto scuola-lavoro.
Sono sicuro che le idee non ci mancherebbero
Se mi si dicesse che ci vuole però un vertice ministeriale ed universitario proiettato in queste direzioni e capace di riprendere in mano il potere organizzativo nella scuola penso alla Ministero della Pubblica Istruzione ove per occuparlo forse la laurea ci vorrebbe.
Il lavoro scolastico, docente in primis, deve diventare un lavoro a tempo pieno, almeno per il 50 per cento del personale. Un lavoro per gente motivata, colta, dinamica, ben retribuita, stimata dalla società e dal mondo non per reverente sottomissione ma per gli evidenti risultati positivi sullo stato d’animo e sulla volontà dei giovani.